Riflessioni in coda a “Le basi del Gesto terapeutico”, Trieste, 15 febbraio 2016

È appena finita la giornata introduttiva al progetto formativo del Gesto terapeutico, intensamente condivisa con i colleghi formatori del Corso di laurea in Fisioterapia di Trieste. Qui di seguito alcune esperienze della giornata che mi sono rimaste impresse come passaggi particolarmente significativi.

1. Laboratorio “sporgersi e sostenersi”.

Molti spunti interessanti in questo laboratorio. Tra essi, mi restano particolarmente impressi quelli più “abduttivi”, che mi allontanano dalle facili categorizzazioni. Ad esempio, durante il laboratorio dello sporgersi e del sostenersi in posizione seduta alta, una collega percepisce una buona aderenza dei piedi e tensione anteriore delle cosce, associate a un inarcamento vistoso della schiena con addome disteso passivamente. È evidente in questo caso che non ci troviamo di fronte a uno schema di “trattenimento” puro per come lo avevo descritto nelle sue componenti somestesiche (inarcamento della schiena, tensione delle cosce posteriori e  scarsa o parziale aderenza dei piedi). La buona forma di radicamento e sostegno degli arti inferiori, secondo una progressione ascendente, subisce con l’inarcamento della schiena una brusca deviazione. A presentare un interesse critico qui è il passaggio addominale, la cui distensione passiva rappresenta l’altra faccia dell’inarcamento posteriore. Si palesa quindi in questo caso l’esigenza di lavorare sul campo cosce-piedi-addome, allo scopo di stimolare il risveglio tonico dell’addome.

2. Esplorare la sequenza del gesto (ESG).

Stiamo provando il laboratorio ESG, il movimento indagato è l’elevazione delle braccia. Avvicinandomi a un gruppetto, mi dicono che la collega con il ruolo di paziente ha un dolore dorsale durante il grado estremo di elevazione.

Osservo la collega, noto le ginocchia piuttosto tese, e parto da lì: le chiedo di ammorbidire (o rilassare) le ginocchia. Per tutta risposta vedo che le ginocchia vanno in iperestensione. Ripeto diverse volte la richiesta di ammorbidire le ginocchia, e puntualmente esse vanno in iperestensione.  A quel punto esprimo alla collega il mio riscontro, e lei mi risponde qualcosa del tipo: “certo, perché quando mi rilasso lascio andare le ginocchia in iperestensione”. E così dicendo mi mostra una capacità di iperestensione veramente notevole! Quindi la tensione estensoria iniziale che per me era un fenomeno di tensione degno di richiedere un ammorbidimento, per lei era già una posizione di ammorbidimento di un’iperestensione che andava ben oltre. Non solo, ma il mio invito ad ammorbidire (o a “rilassare”, non ricordo il termine che avevo utilizzato) lei lo aveva inteso come un invito a riportarsi nella posizione per lei più comoda e spontanea dell’iperestensione. Mia riflessione: che bell’esempio di frainteso linguistico!

Comunque, una volta chiarito il frainteso, le propongo di flettere leggermente di più le ginocchia, e quindi di notare se sente un cambiamento nel dolore dorsale. No, lei mi risponde, nessun cambiamento. Poi mantenendo le ginocchia in tale atteggiamento, le chiedo di sostenersi leggermente con l’addome inferiore (e così dicendo l’aiuto palpatoriamente ad attivare il tono). Risposta: nessun cambiamento dorsale. Infine mantenendo il tono addominale, le chiedo di sporgersi lievemente in avanti con il torace. Risposta: adesso sente scaricarsi il dorso, e il dolore è sparito.

Tre elementi di interesse in questo processo d’indagine: il primo è la possibilità del frainteso linguistico per cui  il paziente può interpretare in modo originale il compito affidatogli. Il secondo elemento, piuttosto ovvio nell’indagine, è quello di aver individuato una variazione (lo sporgersi del torace) che modificava significativamente il sintomo. Il terzo elemento ha riguardato la costruzione progressiva che ci ha condotto alla sparizione del sintomo: non abbiamo modificato isolatamente i singoli luoghi che componevano il gesto, ma abbiamo progressivamente costruito una qualità gestuale composita: disponibile (ginocchia), sostenuta (addome), aperta (torace) che nel suo insieme ha reso possibile il cambiamento.

3. Le dinamiche espressive delle mani e del corpo proprio.

Nell’ultimo laboratorio della giornata faccio provare al gruppo le tre qualità dinamiche della concordanza, discordanza e trasmissione. Per sensibilizzare preliminarmente i partecipanti, faccio provare loro queste dinamiche con le mani rivolte allo spazio, al fine di facilitare la messa in gioco globale del corpo.

Rimango stupito nel cogliere due tipi di situazione molto differenti: da un lato apprezzo l’espressività piena di alcuni colleghi che mostrano un coinvolgimento piacevole e bello da osservare, con movimenti lenti e fluidi, che emanano un sentire denso ed elastico. Ma qua e là nell’aula noto qualche corpo fisso con mani che si muovono incerte nello spazio: avverto il disagio di questo muoversi, mi verrebbe voglia di accorrere in soccorso, ma non lo faccio, perché comunque stanno vivendo l’esperienza, non si stanno sottraendo a essa, ci stanno dentro. Nel complesso entrambe queste situazioni, chi da una parte sta godendo di una qualità estetica gradevole e chi dall’altra sta dentro un disagio alla ricerca di una qualità che non riesce ad assaporare, sono comunque esperienze formative di valore, disponibili a una scoperta e a un cambiamento possibile di sé. E non è necessario intervenire fin da subito per modificare l’esperienza in corso.

4. Due tocchi, due luoghi, una situazione.

Una collega mi chiede come il contatto manuale può proporsi nella funzione di accompagnare l’esperienza della forma gestuale provata al mattino. Lei è seduta, mi pongo anch’io seduto al suo fianco, rivolto verso di lei, e la guido verso lo sporgersi. Appoggio una mano sul suo torace superiore, e la invito ad appoggiarsi a sua volta, aderendo e desiderando il contatto. Nel frattempo l’altra mia mano contatta la sua schiena, e mentre lei è impegnata nei primi tentativi di appoggio aderente anteriore, noto l’impulso d’inarcamento della sua schiena. Allora distendo ampiamente la mia mano sulla sua schiena, e le chiedo di cercare un appoggio aderente anche in tale sede. Sento il vuoto della schiena che gradualmente si colma, e il suo aderire delicato e diffuso sulla mia mano distesa. Adesso sento entrambi i luoghi, il torace e la schiena, pienamente aderenti al contatto con le mani. Lei mi dice che la sensazione di adesso è molto differente da quella provata questa mattina.

Nella mia riflessione penso innanzitutto alla modalità improvvisa con cui ho sentito arrivare la richiesta della collega, all’ascolto impegnativo che mi ha richiesto, e al mio aderire esperienziale immediato a essa, senza sapere al momento dove mi (ci) avrebbe portato. E l’evento accaduto per me ha avuto il sapore quasi di una novità, perché pur avendo avuto modo in passato di guidare la schiena e il torace dei pazienti in modi simili, è sempre un’esperienza particolare quella di cercare intenzionalmente il contatto aderente con due direzioni spaziali opposte. Questo “schema” è qualcosa di altro rispetto a uno schema di controllo motorio mirato a stabilizzare una parte mentre si muove un’altra parte. È l’esperienza di abitare diffusamente e in modo aderente lo spazio situazionale.