“Le basi del Gesto terapeutico”. Riflessione sull’esperienza.
Sono nel bel mezzo di una serie di giornate de “Le basi del Gesto terapeutico”, corso introduttivo al progetto culturale del Gesto terapeutico. Ho tenuto una giornata a Trento (il 16 gennaio), una oggi a Montegrotto Terme (6 febbraio), e un’altra è prevista a Trieste (15 aprile). Si tratta di una iniziativa, quella del corso introduttivo, che avevo concepito un po’ per necessità, per far fronte alla difficoltà riscontrata negli ultimi anni a far partire i corsi del Gesto terapeutico, e quindi con l’intento di far conoscere meglio il progetto alla comunità dei fisioterapisti.
Questo periodo di difficoltà dell’iniziativa era concomitante al venir meno della mia collaborazione con due istituzioni formative importanti: il corso di laurea in Fisioterapia della sede di Padova e il Master in Terapia manuale di Padova. Avevo scelto di pormi alla periferia del mondo riabilitativo, per dedicarmi più pienamente a una ricerca terapeutica che mi portava ad allontanarmi dalle parole d’ordine e dai luoghi comuni della comunità riabilitativa attuale. La situazione nel suo insieme prendeva la forma di una sincronicità significativa che mi invitava a coltivare il seme di nuove intuizioni, nuove possibilità di esperienza nel sottosuolo del piccolo mondo dell’esperienza quotidiana con i pazienti, del gruppo Nuove Frontiere Riabilitative e dei Seminari. Un po’ come nelle giornate invernali di freddo pungente, il seme viene protetto dalla terra e dalla coltre di neve per maturare internamente, in attesa di momenti più favorevoli a germogliare esternamente.
Quindi forse grazie proprio a questa condizione di isolamento culturale le riflessioni, le pratiche terapeutiche e i laboratori formativi dei vari incontri (i Seminari, Ca’Roman, il laboratorio con il gruppo Voll di danza contemporanea) si andavano facendo più intraprendenti, in quanto liberi dai canoni di una cultura professionale tutta votata all’evidenza scientifica.
Sullo sfondo di questa contingenza si è presentata quindi l’esigenza del corso introduttivo che è il tema della presente riflessione. Ripeto: inizialmente concepita come una necessità pragmatica, mirata a promuovere il progetto del gesto terapeutico verso una comunità tendenzialmente indifferente. Ma poi rivelatasi, in realtà, una necessità strutturale ai fini di una comprensione ed evoluzione degli stessi temi formativi e terapeutici del progetto.
Infatti, affrontando il compito di presentare ai fisioterapisti un progetto con i suoi temi estranei, le sue pratiche insolite, il suo linguaggio dell’esperienza difforme dai clichés del linguaggio tecnico-scientifico, mi ponevo la questione di come potevo veicolare in modo comprensibile tali temi, pratiche e linguaggio. È stato questo il compito che ho sentito più difficile e gravoso. Un compito che mi scomodava fortemente dalla pigrizia che mi teneva nel recinto del mio mondo. Come si fa a comunicare il senso di concetti quali “fenomenologia”, “forme gestuali”, “sintonia intersomatica”, “estetica terapeutica”, “corpo vivente” “evidenza espressiva”, “spontaneità”, e via dicendo, a terapisti orientati quasi esclusivamente a una pratica basata sull’evidenza scientifica, al movimento concepito solo come fatto cinetico, alla terapia come normalizzazione, alle urgenze dell’efficacia, al corpo-macchina, al controllo motorio? Troppa differenza, tutto sembra destinato all’opposizione o all’indifferenza.
Difficile far passare l’intuizione inclusiva che il corpo vivente comprende al proprio interno anche le determinazioni della sua fisicità e persino la metafora del corpo-macchina se consapevolmente usata. Difficile far intuire che la pratica scientifica si riscopre e si valorizza se non perde la connessione con il proprio radicamento antropologico. Difficile affidarsi alla somestesi come filo d’Arianna che orienta lungo il cammino nel labirinto della sofferenza e della terapia, per chi si è affidato all’affidabilità statistica di tests clinici standard e all’abilità di tecniche terapeutiche pre-definite.
Ma accettando la sfida della proposta e del confronto nel corso introduttivo sulle basi del Gesto terapeutico, ho potuto constatare due sorprese. La prima sorpresa riguardava i partecipanti al corso: pur trattandosi nella maggior parte di colleghi con percorsi articolati nell’ambito dei concetti della terapia manuale ortopedica, in realtà hanno mostrato una buona disponibilità a mettersi in gioco, a cercare di capire i temi, le pratiche e i linguaggi che proponevo loro. Ho trovato cioè una vicinanza maggiore che mi ha rin-cuorato, mi ha scaldato il cuore, rispetto ai periodi di gelo da cui provenivo.
La seconda sorpresa per me sono stato io stesso, la mia difficoltà a costruire e veicolare una comunicazione efficace con i colleghi che hanno partecipato ai corsi. Quante ore passate a riflettere su cosa e come potevano significare per loro i contenuti che andavo proponendo! E preso dalla difficoltà di tale intento, senza accorgermene il lavorio diventava più intimamente mio: era a me stesso che dovevo chiarire più a fondo, più radicalmente il senso di quei temi. La tensione faticosa a gettare ponti di comprensione verso gli altri scavava e interrogava più profondamente nella mia direzione. Ed è così che una necessità faticosa verso gli altri si è rivelata allo stesso tempo un’opportunità evolutiva per me. Rivisitando e interrogando con questa tensione interrogativa ambi-direzionale i tre ambiti metodologici fondamentali del Gesto terapeutico (le forme gestuali, l’indagine esplorativa e le dinamiche di terapia manuale), ho avuto l’opportunità di introdurre nuovi temi, tessere differentemente alcuni rapporti, precisare alcune definizioni, dare nomi nuovi.
Mi sento ancora dentro questo lavorio, e di questo risente soprattutto la fase iniziale della giornata di formazione: è la parte più difficile, perché giocata tutta sul piano dei concetti, del linguaggio, dove sento ancora l’esigenza di una parola più incarnata e più viva, capace di ispirare il senso della nuova prospettiva di esperienza terapeutica.
Ma poi, quando nei laboratori entra in scena il corpo vivente, l’esperienza prende il suo corso, tutto si fa più fluido e intenso, lì sento che il senso formativo e terapeutico si sta scrivendo nella carne di ciascuno. Avvicinandomi con cura a questi corpi viventi disponibili a formarsi, porgendo qua e là parole riflessive, un ascolto attento, uno sguardo intento, un contatto manuale in cerca di sintonia, una piccola scoperta che apre a uno sbocco di cambiamento nel corso di una forma gestuale, si genera un clima molto simile a quello che vivo nella mia quotidianità terapeutica. E allora sento di abitare con questi colleghi uno spazio familiare, e allo stesso tempo trasformativo.
Natale