F. Bevilacqua, Genius loci
Recensione di Natale Migliorino.
F. Bevilacqua: “Genius loci. Il dio dei luoghi perduti”
(Rubbettino editore, 2010).
È un piccolo (84 pagine) e denso volume di Francesco Bevilacqua, avvocato di professione, ma soprattutto camminatore e profondo conoscitore dei territori naturali della Calabria, e scrittore prolificamente dedito a tale passione. Per dire che cos’è il Genius loci, preferisco appoggiarmi alla definizione che ne dà lo stesso autore nella sezione “Concetti” all’interno del suo sito (https://www.francescobevilacqua.com/concetti): “Antica divinità latina che proteggeva e nello stesso tempo rendeva individuale e unico il luogo. Spirito guida del luogo. Rappresenta il ‘senso’ profondo del luogo”. E dalla quarta pagina del libro: “Francesco Bevilacqua ama definirsi ‘cercatore di luoghi dimenticati’. Descrive il suo modo di viaggiare come ‘una forma di travaso tra la mia anima e l’anima dei luoghi’”.
Mi colpisce in particolare l’ultima frase, quella del travaso fra l’anima del soggetto e l’anima dei luoghi. Mi colpisce per una mia particolare sensibilizzazione a certi luoghi che ho visitato, con i quali ho sentito generarsi un sentimento di profonda intimità e sintonia. Tali luoghi per i quali ho provato un tale sentimento di intima adesione li ho chiamati “luoghi dell’anima”. E sentire parlare di “anima dei luoghi”, nella sua forma speculare rispetto alla mia espressione mette in luce un chiasma, una relazione reversibile (per citare concetti di Merleau-Ponty) di reciproca e intima appartenenza fra anima e luoghi.
Ma poi, aprendo il libro, con mia grande sorpresa leggo, nella dedica che compare nella pagina interna che riporta il titolo del libro: “A mamma Adriana e a papà Carlo, tra le cui braccia ho iniziato a percepire la profondità e il mistero del Genius loci. E a tutti i miei luoghi dell’anima”. In quest’ultima frase che lo posiziona nella mia stessa prospettiva, l’autore riconosce i luoghi dell’anima incontrati nel corso dell’esperienza personale come l’eredità spirituale ricevuta nel nido (tra le braccia) degli affetti primari.
Interessante è il modo in cui l’autore dispiega l’indagine sul concetto di Genius loci. Il primo capitolo (prologo) intitolato “Il dio dell’acqua sorgiva” è la narrazione di una sua escursione in Aspromonte. La narrazione procede con una trama in cui s’intrecciano difficoltà fisiche e orientative da un lato, e incontri rivelativi dall’altra:con il pastore che dà l’imbeccata giusta; con la fontana presso cui si soffermano“estasiati dallo spettacolo dell’acqua che fuoriesce dalla roccia come una linfa vitale, come lo strano umore di un corpo umano, come il liquido dono di una creatura soprannaturale”. Alla fine dell’escursione, affascinati dal paesaggio al tramonto “percepiamo in quella visione un respiro più vasto e profondo del nostro”. In questa descrizione c’è quanto basta a rilevare il legame di profonda solidarietà che instaurano fra loro il corpo del viandante e l’anima dei luoghi, che adeguatamente assimilati nel godimento estetico diventano luoghi dell’anima.
Mentre il primo capitolo narra di un’escursione nello spazio come esperienza vivente del Genius loci, il seguito del libro è un’escursione storica sull’intuizione spirituale del Genius loci, divinità (spirito, anima) del luogo propria dell’antica cultura latina. I capitoli di questa indagine percorrono, oltre alla cultura latina, quella Greca (con il concetto analogo di Daimon), la moderna psicologia analitica, gli studi di fenomenologia delle religioni di Mircea Eliade, le figure delle ninfe e delle fate come incarnazioni del Genius loci, una visione ecologica dell’architettura moderna, l’estetica del paesaggio, l’antropologia dei luoghi e non-luoghi di M. Augé, e la letteratura poetica.
Alla fine di quell’escursione ideale che è la lettura, m’interrogo sulle affinità che questo piccolo libro mostra con la mia ricerca esperienziale di terapista, in particolare con l’orientamento generale verso un’estetica dell’esperienza. Individuo due tipi di affinità rilevanti.
Una prima affinità consiste nel riconoscimento e nella valorizzazione dello spazio di esperienza come luogo dotato di valori estetici, etici, simbolici e in generale spirituali. C’è una vicinanza qui con gli studi fenomenologici sugli spazi emozionali delle atmosfere, e con le affordances della psicologia ecologica. Queste proprietà espressive dello spazio di esperienza possono risuonare in chi si pone in relazione sintonica con esso, ed è questo principio di relazione primaria che ha ispirato l’intuizione dell’esercizio terapeutico come forma gestuale che esprime a sua volta la tonalità di relazione estetica nei confronti dello spazio di esperienza. Fondamentalmente ogni movimento del corpo, in una prospettiva formativa, artistica e terapeutica, ha bisogno di situarsi intenzionalmente verso un mondo dotato di senso. In particolare l’esperienza terapeutica presenta in modo critico il problema della sofferenza come alienazione fra uno spazio di esperienza svanito dall’orizzonte eun corpo che si è ritirato e oscurato in sé.
La seconda affinità che trovo in questo libriccino è l’uso del termine “luogo”. È questo un termine che in una prospettiva estetica e spirituale ha un valore pregnante. Citando Servio, un tardo autore latino, uno dei capitoli del libro s’intitola “Nullus locus sine Genio”: non c’è nessun luogo che non possieda un proprio Genio, una propria anima. E questo viene detto in modo analogo all’idea che ogni persona possiede una propria anima. Ma invertendo la direzione dello scambio analogico e mimetico fra spazio e corpo, potremmo dire che non c’è corpo che non possieda dei luoghi. In una prospettiva estetica ogni parte del corpo(piede, bacino, spalla, …) non è un assemblaggio di strutture anatomiche, ma un luogo inteso in modo pregnante, cioè un’unità integrale discreta, dotata di un proprio sentire e di una propria prospettiva originale verso un proprio spazio privilegiato di riferimento. Un’estetica somatica rivolta ai luoghi emancipa l’esperienza sia dalla parcellizzazione meccanica del paradigma biomedico, sia dalle fumosità di un globalismo indistinto.
Infine, oltre a queste due affinità, ho apprezzato in questo piccolo testo una felicità di linguaggio, in particolare nel prologo dell’escursione in Aspromonte, con i suoi risalti descrittivi, il ritmo narrativo incalzante, i richiami di memorie e immaginativi tanto liberi quanto ispirativi, le epifanie simboliche che pescano in profondità. In sintesi: un linguaggio capace di esprimere e far rivivere al lettore l’esperienza dell’escursione in uno spazio vitale e sacrale, “numinoso”.
La stessa esigenza di linguaggio vitale sento che si ponga a un terapista (e a un paziente) impegnato nell’escursione estetica del corpo, durante le pratiche di terapia manuale e di esercizio terapeutico. Quanto aridi risultano i resoconti del tipo: ho eseguito la manovra “x” (termine spesso afflitto da inglesismo) sul muscolo tal dei tali per tot tempo. Il risultato è stato … (in genere si tende a voler dimostrare l’efficacia, mostrando così paradossalmente il bisogno di rassicurare l’ansia di un’insicurezza incapace di sostenere l’incertezza). Sono resoconti di un linguaggio stereotipato, anonimo, privo di vita nel senso che non parla di esperienza vissuta, e non desta la vitalità dell’anima del lettore. Ecco, liberandoci da questo linguaggio asfittico che soffoca l’anima e immiserisce il pensiero, abbiamo bisogno di apprendere pazientemente un linguaggio dell’esperienza capace di toccare le nervature sensibili dello stesso scrittore, oltre che del lettore. Scrivere è più che rivivere, è reincontrare l’esperienza, ispirata dalla sintonia con il genio dell’esperienza.
Dal punto di vista dell’io lo slancio personale è l’espressione delle forze vitali super-individuali che trascendono l’io cosciente sul versante della sua origine. Esso quindi non origina nell’io, ma è la fase di convogliamento e attraversamento individuale da parte di forze motivazionali profonde, inconsce. Minkowski parla a questo proposito, con un ossimoro efficace, di “coscienza dell’inconscio”, secondo una struttura ontologica di “dualità indivisa” che rompe con i dualismi e i riduzionismi con cui si è impostato il dibattito sulla mente. In particolare la differenza sostanziale è con l’inconscio inteso dalla psicanalisi freudiana, quale luogo nascosto e separato dalla coscienza, e in rapporto fondamentalmente conflittuale con essa. Una maggior similitudine strutturale trovo invece con il concetto di “inconscio collettivo” di Jung, sebbene, in una prospettiva fenomenologica, l’analogia si fermi qui e non comprenda i contenuti simbolici degli archetipi universali come dati preesistenti all’esperienza. Ma più in generale mi pare che la coscienza dell’inconscio trovi forti analogie con la concezione della “mente diffusa” proposta da uno stile di pensiero ecologico, capace di considerare l’intima solidarietà e la continuità fra senso dell’esperienza soggettiva e qualità espressive dell’ambiente esperienziale.
L’interesse della dualità indivisa della “coscienza dell’inconscio” per un riabilitatore può presentare un forte interesse critico nel destrutturare la zavorra dualistica (e insieme riduzionistica) che così
pesantemente condiziona e isterilisce gran parte del pensiero riabilitativo corrente: psiche/corpo, teoria/esperienza, struttura/funzione, cognizione/riflesso, movimento volontario/involontario, dolore presente/assente, ecc. Lo stesso tentativo di uno sguardo più comprensivo sul soggetto paziente, portato avanti dal modello ICF, viene assimilato a questa struttura dualistica e digerito nei termini di una mera giustapposizione e sommazione diagnostica fra realtà materiale (il funzionamento e le menomazioni fisiche della condizione di malattia), psichica (i bisogni dell’individuo) e sociale (l’appartenenza e i ruoli giocati nel contesto sociale). L’atto di comprensione terapeutica di cui è intriso ogni momento dell’esperienza terapeutica, mantenendosi in sintonia con la sintesi originaria dello slancio vitale inter-personale terapista/paziente, non può adottare le forme statiche e disincarnate di un pensiero catalogante, incapace di rappresentare la genuina composizione dell’esperienza del patire e di quella terapeutica.
Un altro concetto fortemente connesso a quello di slancio personale, e da cui possiamo trarre stimoli significativi, è quello di “opera”, quale realizzazione dello slancio personale. Alcune citazioni: “L’opera ha sempre una portata, un carattere oggettivo, o meglio trans-soggettivo … L’opera compiuta si integra al mondo in cammino … quest’opera riesce a lasciarvi un segno. Compiuta che sia, la mia opera si distacca da me e continua la propria vita … il divenire-ambiente diventa ciò che è solo perché il mio slancio personale viene a integrarvisi, solo perché esso vi prende corpo. È questa integrazione che gli conferisce a mio parere il carattere di qualche cosa di reale, di effettivo, di consistente, di tangibile” (pp. 55-56).
Il concetto di “opera” intesa in questo modo scompagina l’idea consueta di movimento così centrale nel nostro lavoro, e che tendiamo a rappresentare secondo forme elementari, ordinate e “controllate”. Nel concetto di opera in quanto forma di realizzazione trovo una possibilità di sviluppo e continuità con la mia riflessione sulle “forme gestuali” che pongono più in risalto la qualità espressiva e relazionale del soggetto. In tale sviluppo come realizzazione si rende esplicito il carattere performativo e generativo del gesto come opera: ossia la sua capacità di produrre nuova realtà, destinata a trascendere il mio senso e il mio scopo personali e contingenti. È quello che intuisco quando sento che i miei gesti mi attraversano, e vanno oltre me.