Riflessioni sul convegno “Il formarsi nella cura terapeutica”
UN EVENTO PIÙ GRANDE DI NOI.
Riflessione in coda al convegno Formarsi nella Cura Terapeutica (Dolo, 24-26 marzo 2017).
Quante cose sono successe in questo convegno. Ne sono uscito con la sensazione che si sia trattato di un evento più grande di noi. Come se, una volta sorto, avesse assunto una propria autonomia e avesse sopravanzato le intenzioni e le attese con cui ce l’eravamo prefigurato. Quanti accadimenti si sono rivelati dotati di qualità e intensità differenti da come me li immaginavo. Quanti passaggi imprevisti, piccole svolte, nuove domande hanno costellato l’esperienza con le loro ispirazioni. Quante persone mi sono apparse in un loro profilo di Grazia. Questa sensazione vaga e confusa di un’esperienza formativa così generosa basta a se stessa, posso tenermela en stretta così com’è, per non perdere il suo clima speciale.
Ma accanto a questa sensazione generale mi porto dentro il vivo rilievo di alcuni temi emersi nei momenti di dibattito del convegno. Si tratta dei temi cruciali della tonalità, dell’integralità e della radicalità, che meritano una riflessione per chiarire la natura del nostro progetto.
Il tema della tonalità è emerso durante il dibattito del primo giorno. La domanda è stata: qual è la differenza fra il termine “tono” correntemente utilizzato in riabilitazione (da “tono muscolare” a “dialogo tonico”), e il termine “tonalità” da me utilizzato? La differenza consiste fondamentalmente nel fatto che il tono è un fenomeno fisiologico riferito all’attività muscolare, mentre la tonalità è un fenomeno estetico riferito alla qualità di presenza propria e situata del corpo vivente, e apprezzabile secondo il modo del sentire espressivo. Per questo la tonalità è un fenomeno che viene recepito nella somestesi del corpo proprio, e allo stesso tempo si esprime nello spazio condiviso di esperienza, manifestandosi secondo i gradi della qualità tonale (qualità dinamica e affettiva che emana dal corpo), dello schema tonale (struttura composita e coerente di relazioni intracorporee che rende conto dello stile con cui si esprime un movimento) e della forma gestuale (relazione d’intenzionalità somatica fra il soggetto e il suo spazio di esperienza).
Il tema dell’integralità è emerso nel dibattito dell’ultimo giorno. Lo spunto è arrivato da un’osservazione critica nei confronti del concetto di “integrazione” e di “approccio integrato” correntemente usati in riabilitazione. In particolare la critica ha rilevato il fatto che l’approccio integrato non risolve il problema del dualismo, anzi produce un effetto paradossalmente moltiplicatore e dispersivo sulla realtà riabilitativa. La critica risulta molto pertinente considerando il fatto che solitamente l’approccio integrato in riabilitazione è inteso come proposta di una composizione di metodi di trattamento eterogenei, al fine di soddisfare una varietà di bisogni del paziente.
L’idea di integralità insita nel nostro progetto si differenzia nettamente dagli approcci integrati in quanto il concetto di integralità ci riporta alla pienezza costitutiva della dimensione umana, che precede ogni esperienza. L’uomo in generale, e l’uomo che soffre in particolare, si dà all’esperienza nella pienezza e interezza della propria umanità, e come tale va accolto. Non solo, ma anche il terapeuta (riabilitatore, medico, infermiere, psicoterapeuta) è chiamato a riconoscere e a coinvolgere la pienezza della propria umanità. A questo proposito si consideri ad esempio il laboratorio del primo giorno, con i suoi temi dell’affidarsi e dell’accogliere, nella varietà dei modi dinamici, affettivi e morali con cui sono stati espressi.
In linea di continuità con il concetto di integralità, il concetto di radicalità pone la questione di un’esperienza che pesca nella profondità della propria radice la genuina ispirazione e motivazione per svilupparsi. Anche in questo caso è opportuno distinguere nettamente la radicalità esperienziale dal radicalismo rigido e fanatico di cui si hanno esempi diffusi nell’attualità, ma che ha macchiato di sé la storia dell’umanità, offendendo l’umanità di chi l’ha subito, beninteso, ma anche tradendo l’umanità di chi l’ha praticato. Ogni volta che l’uomo non è riconosciuto nella sua natura trascendente (questa è la lezione di Lévinas), e viene ridotto e asservito all’idea e al controllo da parte di un altro, lì siamo di fronte alla malattia morale del radicalismo che esita nell’aridità estetica e nella morte esistenziale dell’uomo.
La radicalità esperienziale è la cura di tale malattia, che si realizza ogni qualvolta ci si renda disponibili a farsi interrogare dalla nostra umanità in atto nell’esperienza quotidiana. La radicalità intesa come radice dell’esperienza di cura e terapia indica la radice in intima solidarietà con il terreno che le è proprio, che alimenta e fa espandere l’esperienza della cura e della terapia. Indizi di tale radicalità esperienziale sono l’intensità affettiva, l’adesione solidale all’altro, la vitalità del clima relazionale, il naturale propagarsi del senso esperienziale da una dimensione all’altra della condizione umana. Questi indizi sono serpeggiati nelle diverse attività del convegno, e abbiamo potuto gustarli in particolare nei momenti dei laboratori che ci hanno provocato fin dall’inizio di ogni giornata, per assumere il dinamismo riccamente interattivo dei laboratori pomeridiani.
Nei giorni del convegno questi tre temi di fondo (tonalità, integralità e radicalità) hanno serpeggiato fra le diverse attività, vivificandole e fecondandole, rendendole sovrabbondanti. Da qui la sensazione di un evento più grande di noi, in quanto ha attraversato tutti gli spazi liberi concessi dalla struttura aperta delle nostre attività, finendo per generare nuovi spazi e nuovi temi. L’impegno che ci attende adesso è di dare continuità e sviluppo a questa esperienza primaria, riconoscendo innanzitutto il suo spirito e le sue ispirazioni nell’esperienza quotidiana.